Il contrasto alla criminalità “da profitto” costituisce nitida tendenza della moderna politica criminale, connotata da un’espansione assai considerevole di strumenti e di fattispecie penali. Tendenza che, per un cronico difetto di raccordo sistematico delle produzioni dei legislatori storici nazionali, non manca di ingenerare perplessità ed insicurezze anche nella riflessione giuridica. Di fronte ad un “armamentario”, sulla carta, davvero formidabile, per l’accusa, e contrastabile con fatica, in ottica difensiva, al ricorrere dei presupposti normativi, le incertezze appaiono pervadere anche la giurisprudenza di legittimità che, in recenti approdi, è pervenuta a temperarne non poco i contenuti applicativi. Questa situazione è maggiormente riconoscile nei reati di autoriciclaggio, dove i timori per pericoli di interferenze con il principio del nemo tenetur se detegere e del divieto di ne bis in idem restano in campo, anche al di là di critiche assolute e non sopite rispetto ad una fattispecie, non senza qualche ragione – accusata di vocazione onnivora. Ma la stessa prudenza esegetica non è estranea ai reati di riciclaggio e di reimpiego.
Questa tipologia di reati di “secondo grado”, infatti, sotto il profilo del diritto penale sostanziale, testimonia plasticamente il potenziamento della propensione a privare i criminali del provento dei reati; inoltre, è presidiata da misure ablative poderose, che, in talune evenienze – si pensi ai reati transazionali o agli illeciti amministrativi dipendenti da reati ex art. 25 octies d.lgs. n. 231/2001 – possono coinvolgere, per non dire “travolgere”, nella loro manifestazione più severa e radicale (la confisca di valore) anche risorse di provenienza legittima degli enti giuridici cui appartiene l’autore dell’illecito penale.
Acquisita definitiva consapevolezza della natura cangiante e sfuggente delle confische, le letture di maggiore moderazione interpretativa si esprimono sul versante dei confini reali dei proventi confiscabili in relazione ai reati di autoriciclaggio e di riciclaggio.
Per il profitto, da un lato, ma specialmente per il prodotto di alcuni dei reati in discorso non rare pronunce della Suprema Corte, infatti, sottostimano il fatto che le operazioni di riciclaggio (si pensi, tipicamente, alla sostituzione) e di autoriciclaggio (si pensi, ancora, all’impiego) si connotano per la creazione, la trasformazione, l’adulterazione o l’acquisizione di beni che vivono un legame diretto ed immediato con l'attività delittuosa. Si tratta del frutto diretto dell'attività criminosa, ossia del risultato ottenuto direttamente dall’attività illecita che talvolta sfugge anche agli interpreti più autorevoli, nella ricerca tormentosa dei confini di un profitto che non risolve, a ben vedere, tutte le ragioni del crimine economico né quelle della sua repressione.
Lo studio si propone di esaminare gli approdi più recenti della giurisprudenza di legittimità, sulla scorta degli stimoli di quella merito, in una materia — quella dei provvedimenti ablativi penali e delle misure cautelari reali alle prime funzionali — in rapida e incessante evoluzione.
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