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Estensore: SGROI S.
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PROCEDURE DI COMPOSIZIONE DELLA CRISI DA SOVRAINDEBITAMENTO - IN GENERE
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In un sistema nel quale il titolo esecutivo è unico fondamento di legittimità dell’esecuzione, la giurisprudenza ha sempre preteso che esso dovesse esistere già nel momento in cui l’esecuzione inizia e mantenersi per tutta la sua durata sino alla sua positiva conclusione. Il venir meno del titolo comporta in genere la caducazione degli atti esecutivi compiuti. Il titolo esecutivo, infatti, giustifica non soltanto il compimento, ma anche la permanenza in vita degli atti di esecuzione posti in essere. L’esecuzione forzata è però profondamente cambiata: l’accesso al processo esecutivo è stato anticipato e facilitato, ma i titoli in base ai quali l’esecuzione può essere intrapresa risulteranno meno stabili, e più effimeri...

(di Bruno Capponi, professore ordinario di diritto processuale civile, Università Luiss Roma)

In un sistema che costruisce il titolo esecutivo come unico fondamento di legittimità dell’esecuzione (nulla executio sine titulo), la giurisprudenza ha sempre preteso che esso dovesse esistere nel momento in cui l’esecuzione inizia (e dunque la sua sopravvenienza non potrà sanare il difetto iniziale) e perdurare per tutta la sua durata sino alla sua positiva conclusione. Il venir meno del titolo comporta – salvo quanto infra si dirà – la caducazione degli atti esecutivi compiuti. Il titolo esecutivo, in diversi termini, giustifica non soltanto il compimento, ma anche la permanenza in vita degli atti di esecuzione posti in essere.

Gli orientamenti consolidati in giurisprudenza sino alle riforme processuali degli anni 1990-1995 hanno dovuto in seguito confrontarsi con la realtà dei provvedimenti anticipatori sommari (artt. 186 bis, ter e quater c.p.c.), coi provvedimenti cautelari recanti condanna al pagamento di somme (art. 669 duodecies c.p.c.) e, più in generale, con lo stesso art. 282 c.p.c., che, novellato dalla legge n. 353/1990, ha assegnato (apparentemente) a tutte le sentenze di primo grado l’esecutorietà o efficacia provvisoria. In tal modo, la normale efficacia esecutiva, che nel sistema del codice del 1942 apparteneva senz’altro alla sentenza d’appello (pur essendo prevista la possibilità che la sentenza di primo grado fosse munita della clausola di provvisoria esecuzione, peraltro legata al riscontro di rigorosi presupposti), è divenuta caratteristica propria della sentenza di primo grado, nonché di provvedimenti condannatori, generalmente aventi forma di ordinanza, pronunciati prima della sentenza che definisce il giudizio. In epoca precedente a queste novità legislative l’ipotesi del provvedimento, diverso dalla sentenza, avente efficacia esecutiva immediata riguardava soprattutto il decreto ingiuntivo.

La legge n. 69/2009 ha poi introdotto nel Libro IV – ma questo è problema in parte diverso – il procedimento sommario di cognizione, ancora una volta per facilitare la formazione del titolo esecutivo, scaricando, eventualmente, sul giudice d’appello l’onere di provvedere ad una cognizione “piena ed esauriente” sui presupposti della pronunciata condanna. Non v’è dubbio che molte delle recenti riforme processuali vadano apprezzate nel senso di una sempre maggiore facilità di formazione del titolo esecutivo con conseguente maggiore facilità di accesso alla tutela esecutiva, e forse questa tendenza continuerà a consolidarsi in futuro quale portato della crisi del giudizio di cognizione.

Il quadro dell’esecuzione forzata ne è risultato profondamente modificato; se, da un lato, l’accesso al pro-cesso esecutivo è stato anticipato e facilitato, dall’altro lato i titoli in base ai quali l’esecuzione può essere intrapresa risulteranno meno stabili, e più effimeri. La giurisprudenza orientata sul solo decreto ingiuntivo, provvedimento di rapidissima formazione suscettibile di divenire titolo esecutivo già ex abrupto (art. 642 c.p.c.) o anche in corso d’opposizione (art. 648 c.p.c.), ha dovuto confrontarsi con fattispecie molto più numerose e più frequenti.

In questo contesto, dobbiamo chiederci se la regola, secondo cui il titolo esecutivo deve esistere prima e permanere durante tutto il corso e così sino alla conclusione dell’esecuzione, si riferisca allo stesso atto, ovvero se possano darsi ipotesi di successione o trasformazione dei titoli esecutivi giudiziali.

Occorre premettere che nessuna norma del Libro III del c.p.c. regola direttamente l’ipotesi. L’unica disposizione che prende in esame il fenomeno della successione o trasformazione del titolo esecutivo è non a caso collocata tra i procedimenti speciali, nell’opposizione a decreto ingiuntivo: l’art. 653, comma 2, c.p.c., circa l’accoglimento parziale dell’opposizione, afferma che «il titolo esecutivo è costituito esclusivamente dalla sentenza, ma gli atti di esecuzione già compiuti in base al decreto conservano i loro effetti nei limiti della somma o della quantità ridotta» . In rapporto a tale norma, occorre stabilire se essa affermi una regola, valida per tutti i casi di successione oggettiva, ovvero se ponga un’eccezione per il caso particolare del decreto ingiuntivo. Questo titolo, infatti, ha una caratteristica del tutto peculiare: se non integralmente confermato, deve essere dichiarato nullo o revocato, con effetti necessariamente ex tunc. Ragion per cui, qualora l’esecuzione iniziata sulla scorta del decreto provvisoriamente esecutivo non sia conclusa nel momento in cui l’opposizione viene definita con la sentenza che annulla o revoca il decreto (pur accertando l’esistenza di un credito, tuttavia di importo minore), gli atti di esecuzione dovrebbero essere caducati non esistendo più il titolo esecutivo a base dell’esecuzione (che giustifichi, cioè, tanto il compimento degli atti esecutivi, quanto la loro conservazione). Ma la ratio della norma speciale, ispirata al principio di conservazione degli atti, è appunto nel senso che, anche in caso di caducazione ex tunc del decreto ingiuntivo dichiarato nullo o revocato (caso, all’evidenza, assai diverso dalla “riforma” della sentenza di primo grado), gli atti di esecuzione compiuti restano validi purché giustificati “a ritroso” dalla sentenza che, accertando l’esistenza di un credito sia pure di importo minore rispetto al quantum della pronuncia monitoria, giustifica la permanenza in vita del titolo esecutivo (e, con esso, degli atti di esecuzione già compiuti nei limiti del diverso quantum giustificato da quella sentenza).

Per trasferire questa regola “speciale” al fenomeno dell’ordinaria successione dei titoli costituiti da senten-ze, occorre tuttavia ragionare non sull’ipotesi appena considerata (che, ripetiamo, si giustifica col particolare regime proprio del decreto ingiuntivo quale titolo soggetto a caducazione ex tunc ogni qualvolta non possa essere integralmente confermato), bensì su quella opposta della conferma integrale del decreto ingiuntivo: cosa è dell’esecuzione, se la sentenza che definisce l’opposizione confermi in toto il decreto ingiuntivo?

Come avviene per il caso di successione di sentenze, anche questa ipotesi non è positivamente e direttamente regolata. Non si dubita, tuttavia, che tanto nel caso della successione di sentenze (es., di primo grado e d’appello), quanto nel caso della successione della sentenza al decreto ingiuntivo, l’esecuzione forzata non venga meno a causa dell’effetto sostitutivo del secondo titolo, che importa il venir meno del primo (non però ex tunc), ma prosegue indisturbata come se i due titoli costituissero un continuum. Tale soluzione, tradizionalmente recepita, è stata anche di recente convincentemente argomentata dalla S.C. : «la norma del capoverso dell'art. 653 c.p.c., sebbene dettata in materia di opposizione a decreto ingiuntivo, costituisce espressione di un principio generale valido per tutte le ipotesi in cui un provvedimento giurisdizionale provvisoriamente esecutivo, posto in esecuzione, venga modificato solo quantitativamente da un successivo provvedimento anch’esso esecutivo, sicché, iniziata l’esecuzione in base a sentenza di primo grado munita di clausola di provvisoria esecuzione, ove sopravvenga sentenza di appello che riformi la precedente decisione in senso soltanto quantitativo, il processo esecutivo non resta caducato, ma prosegue senza soluzione di continuità, nei limiti fissati dal nuovo titolo e con persistente efficacia, entro gli stessi, degli atti anteriormente compiuti, ove si tratti di modifica in diminuzione, o nei limiti del titolo originario qualora la modifica sia in aumento, nel qual caso, per ampliare l’oggetto della procedura già intrapresa, il creditore ha l’onere di dispiegare intervento, in base al nuovo titolo esecutivo costituito dalla sentenza di appello».

Quindi, l’art. 653, comma 2, riafferma una regola, per il caso particolare del decreto ingiuntivo caducato ex tunc, che interessa anzitutto i titoli esecutivi (come le sentenze, ma identico regime ha il decreto integralmente confermato) per i quali non v’è caducazione ex tunc bensì il diverso fenomeno dell’effetto sostitutivo (v. il par. seguente), tale per cui un titolo (ove, beninteso, almeno in parte confermato) si trasforma in un altro, senza che venga mai meno l’efficacia esecutiva idonea a sorreggere l’esecuzione forzata. E, va sottolineato, la regola dell’effetto sostitutivo vale anche quando la sentenza d’appello sia di accoglimento parziale del gravame, con la produzione di un fenomeno processuale in tutto assimilabile a quello regolato dall’art. 653, comma 2, c.p.c.

Possiamo quindi affermare che la regola per cui il titolo esecutivo deve esistere durante tutto il corso e sino al termine del processo esecutivo non impone che l’esecuzione, iniziata sulla base di un determinato titolo, debba anche proseguire e concludersi in forza di esso: dall’effetto sostitutivo (che costituisce la normalità nella successione o trasformazione dei titoli giudiziali) così come dall’art. 653, comma 2, c.p.c. (giustificazione a ritroso di atti esecutivi compiuti in base a titolo caducato ex tunc) deduciamo facilmente il fenomeno della successione o trasformazione oggettiva del titolo esecutivo, tale per cui il titolo che sorregge e completa l’esecuzione non è necessariamente quello che le aveva dato inizio.

L’esecuzione forzata deve sempre essere sorretta da un titolo esecutivo; ma questo, oggettivamente, può cambiare, senza perciò determinare interruzioni nell’esercizio dell’azione esecutiva.

Del resto, nel codice di procedura una regola simile interessa addirittura titoli esecutivi di creditori diversi (successione o trasformazione soggettiva): se infatti, prima della vendita, il procedente rinuncia all’esecuzione, il creditore intervenuto munito di titolo potrà scegliere di continuarla per la sua sola soddi-sfazione (art. 629, comma 1, c.p.c.); qui, l’esecuzione è iniziata da un creditore e viene continuata da altro creditore, con un fenomeno successorio non interno al titolo, bensì interno allo stesso processo esecutivo. E tale fenomeno, come subito vedremo, offre argomenti decisivi anche per risolvere il problema della continuazione dell’esecuzione ad opera del creditore intervenuto munito di titolo, in caso di venir meno del titolo del creditore procedente (purché non si tratti di revoca ex tunc e gli atti iniziali dell’esecuzione non siano viziati), con conseguente sostituzione del titolo del procedente con quello del creditore intervenuto (altra ipotesi di successione non nel titolo, ma nel processo esecutivo).

Sono ammesse quindi non soltanto successioni o trasformazioni di tipo oggettivo, ma anche di tipo sogget-tivo.

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