Il filo conduttore dell’intera opera di revisione di cui al decreto legislativo 24 settembre 2015 n. 158 − intervento riformatore che si pone l’obiettivo di mitigare e ridurre l’interesse penale per fatti stimati privi di fraudolenza, ma anche di inasprirlo per quelli provvisti di attitudine decettiva più intensa e definita − è costituito dall’introduzione di soluzioni “dedicate” a specifiche categorie di contribuenti, quelle di maggiori dimensioni per volume d’affari o ricavi, delle quali risultano condivise le premesse valutative sullo stato di incertezza del sistema tributario e sui negativi riflessi di essa rispetto alle scelte dei soggetti imprenditoriali, con rischio di perdita di competitività del sistema economico nazionale. Insicurezza che, non poco, sarebbe stata alimentata da percorsi ermeneutici ondivaghi della giurisprudenza.
Infatti, esclusivamente per tali contribuenti, contraddistinti dalla dimensione del fatturato, è istituito il peculiare regime di adempimento collaborativo delineato degli artt. 3-7 del d.lgs. n. 128/2015, con forme rafforzate di comunicazione e di cooperazione con l’amministrazione finanziaria, basate sul reciproco affidamento, per favorire, nel comune interesse, la prevenzione e la risoluzione delle controversie in materia fiscale. E sempre per la stessa tipologia di contribuenti, a ben vedere, viene introdotta una disciplina normativa dell’abuso del diritto che ha finito per recepire quali criteri direttivi le soluzioni definitorie elaborate dalla giurisprudenza. Anche se la vera novità della riforma riposa in quella netta – ma solo apparentemente non contrastabile - previsione (articolo 10-bis, comma 13 legge n. 212/2000) alla cui stregua «le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie»; con ciò, a ben vedere, contraddicendo, senza mezzi termini e nessuna volontà di mediazione, il diverso approdo cui era pervenuta da ultimo la maggioritaria giurisprudenza penale della Corte regolatrice e, per di più, con un’interpretazione alquanto forzata della delega.
Dal dialogo privilegiato con i contribuenti di maggiori dimensioni, cui si attribuiscono notevoli vantaggi, anche sul piano sanzionatorio penale (con la riduzione dell'area di intervento della sanzione penale; la riduzione delle fattispecie penali; l'individuazione di nuove ipotesi di non punibilità; l’attribuzione all'impianto sanzionatorio amministrativo della repressione di quelle condotte che si connotano, in linea di principio, per un disvalore diverso e minore), a salvaguardia della libertà di intrapresa economica, della competitività del Paese a livello internazionale e della crescita, l’Amministrazione finanziaria si attende un ritorno di medio periodo in termini di accrescimento del livello di adeguamento spontaneo degli obblighi fiscali.
Il contributo intende evidenziare che se devono riconoscersi sicuri meriti di aderenza alla realtà rispetto ad alcune delle soluzioni scaturite dall’attuazione della delega, non di meno, non può essere taciuto che l’aspirazione alla definizione di una nozione oggettiva e fattuale di evasione fiscale penale, che rassicuri i contribuenti infedeli ma non fraudolenti dal rischio penale dei contenuti valutativi e dei canoni giuridici del diritto tributario, appare essersi tradotta in un approdo ingenuo, ancor più soggettivo di quello cui s’intendeva porre rimedio. Nel breve periodo, esso può essere preferito, anche per l’esigenza di immediata rassicurazione di istanze di semplificazione ampiamente presenti nel dibattito economico e sociale. Ma difficilmente risulterà capace di offrire un basamento stabile sul quale edificare un sistema più equo, trasparente ed orientato alla crescita.
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