
Laureato presso l’Università di Palermo (con tesi in scienza delle finanze), entra in magistratura nel 1989, iniziando come giudice presso il Tribunale di Agrigento, e così subentrando, tra le altre, nelle funzioni del riesame dei provvedimenti sulla libertà personale già di Rosario Livatino. Nel 1993 è trasferito alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Sciacca e dal 1994 componente della Direzione distrettuale antimafia di Palermo. Ha successivamente superato il concorso per referendario presso la Corte dei Conti (così nominato con d.P.R. 18 luglio 2003), transitando alla magistratura contabile nello stesso anni e poi facendo rientro in magistratura ordinaria, come sostituto procuratore presso la Procura di Roma (dal maggio 2005), da novembre 2006 ancora ricoprendo il ruolo di componente della Direzione distrettuale antimafia. Nel settembre del 2009 è tornato in Sicilia, trasferito a Caltanissetta ove è stato componente della D.D.A. fino al settembre 2015, allorchè ha preso le funzioni alla Procura Generale presso la Corte di cassazione. Tra i processi dei quali si è occupato a Palermo: a carico dell’ing. Giuseppe Montalbano, proprietario della villa di via Bernini dove risiedeva Salvatore Riina, e il processo denominato “operazione Cupola” culminato con l’arresto in flagranza di 14 componenti della commissione di Cosa Nostra di Agrigento, riunitisi per eleggere il capo provincia. A Roma si è occupato di vari processi in materia di stupefacenti, e in particolare del processo alla banda di Gennaro Mokbel – denominato processo Telecom-Fastweb. A Caltanissetta ha seguito il processo a carico di Allegro Matteo ed altri relativo ai reati di associazione mafiosa, peculato, frode informatica, corruzione, avente ad oggetto una azienda operante nel settore del gioco e delle scommesse, vicina a Cosa Nostra nissena e culminato in un sequestro di un ingente patrimonio mobiliare e immobiliare e di oltre 90 macchinette slot-machines modificate in modo da eludere ogni forma di collegamento alla rete dei monopoli. In materia di misure di prevenzione ha redatto numerosi provvedimenti di sequestro e confisca, tra cui quello a carattere patrimoniale a carico di Guarneri Antonio e familiari, che ha portato alla confisca del cd. Feudo Caramazza di circa trecento ettari di cui cento di vigneto. La difficoltà del procedimento, originariamente assegnato a Livatino, oltre all’entità del patrimonio, si accompagnava alla persona del proposto, condannato come capo decina di Canicattì e quindi collegato alle persone di Giuseppe Di Caro e di Ferro Antonio, storici capi mafia di quel centro. Ha svolto in più occasioni funzioni di relatore in incontri decentrati per la formazione dei magistrati.