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Può un decreto legge aspirare a superare il dissesto societario con la forza della definizione e delle presunzioni normative? La domanda non è senza ragioni. Pare questa, infatti, una delle principali ambizioni del Decreto Legge 8 aprile 2020 n. 23 (cd. D.L. Liquidità), prontissimo nel concedere importanti iniezioni di tempo alle imprese in crisi da COVID; ma non solo a quelle.

Difronte alle gravi crisi del capitale sociale e allo stato prossimo al dissesto sembrano inertizzati alcuni doveri tradizionali di immediata informazione e di adeguata gestione dello squilibrio economico.

Così, se il codice della crisi di impresa e dell’insolvenza muoveva dalla convinzione che l’emersione della crisi dovesse essere il principale interesse da tutelare, qualche smarrimento sovviene nel registrare che il D.L. liquidità sembra offrirci un valore opposto: la proprietà benefica del temporeggiare nella crisi o nell’insolvenza, se non quella di nasconderne la realtà. 

Quale che sia l’aspirazione autentica del decreto dell’emergenza, è bene considerarne gli inevitabili effetti riflessi sulle fattispecie penali della crisi di impresa, la cui protezione resterà temporaneamente incisa nel contenuto, ma non stravolta nella struttura.

Oltre a passare in rassegna i termini di questa temporanea riduzione della portata delle diverse figure di reati fallimentari, si illustrano le ragioni per le quali l’intervento normativo d’urgenza allontana la praticabilità di un ripensamento, pur necessario, dell’impostazione della tutela penale nel settore della crisi di impresa e dell’insolvenza.

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