Il nuovo sistema di prevenzione e gestione delle crisi delle banche e delle imprese di investimento in attuazione della direttiva BRRD (Bank Recovery and Resolution Directive) induce a riflettere sulle tecniche di prevenzione e repressione penale sinora adottate a tutela del risparmio e degli investimenti. Oltre che sulla reale consapevolezza del legislatore circa lo stato degli strumenti di tutela in materia.
Sul fronte del sistema civile si amplia l’offerta di strumenti regolatori delle crisi bancarie alla ricerca della soluzione più efficace, utilizzando risorse del settore privato, evitando che il costo dei salvataggi gravi sui contribuenti e riducendo gli effetti negativi sul sistema economico. Ma la novità significativa, improvvisamente percepita e tagliente, è il rischio che il sacrificio del risanamento e della crisi bancaria debba essere sopportato definitivamente anche dai creditori dell’ente in dissesto (possessori di obbligazioni subordinate o di depositi per l’importo che sopravanza i 100 mila euro), nella sventura (e solo in essa) parificati, sia pure in via subordinata, agli azionisti. Tanto più che il legislatore europeo ha adottato il cosiddetto “approccio legale”: le nuove misure si applicano anche agli strumenti già emessi e dunque già posseduti da risparmiatori ed investitori. Ovvero le regole cambiano dopo che le scelte sono state già consumate.
Il mutamento legale di scenario per i risparmiatori, quindi, giustifica almeno la riflessione sul modo in cui il diritto penale tutela realmente interessi ed aspettative. Sostenere che l’applicazione della procedura del bail in (artt. 48-59 d.lgs. n. 180/2015) non muta alcuna delle valutazioni di adeguatezza ed efficacia dell’assetto vigente dell’ordinamento penale pare lettura improvvida, come tacerlo.
Non che tutto possa e debba il penale. E nondimeno una tutela razionale e seria, ora, dovrebbe pretendersi da un sistema che resta presidiato da controllori la cui condizione di ampia indipendenza (strumento e non valore finale) costituisce premessa irrinunciabile, per quanto non esclusiva, della qualità della sorveglianza stessa.
La disamina proposta nello scritto rende manifesto come il nostro sistema penale societario non considera attualmente il conflitto di interessi mal gestito di per sé meritevole di sanzione. La costruzione delle fattispecie penali, infatti, non prescinde mai dal danno, per lo più patrimoniale, in ogni caso valutabile in termini economici. Assoluta la repulsione verso i reati di pericolo.
Lo studio esamina accuratamente gli estesi limiti e le ridotte possibilità di tutela delle ragioni degli investitori e dei risparmiatori nel contesto dell’ordinamento penale attuale in relazione alle forme di infedeltà gestoria grave, sovente realizzate con la precisa consapevolezza dei limiti dell’indagine penale e del processo.
La “scoperta” cui conduce è che nei reati societari passati in rassegna, che si confrontano quasi sempre con il conflitto di interessi, la tutela degli interessi dei risparmiatori e degli investitori non professionali trova limitatissimo spazio e comunque una protezione riflessa. Inoltre, notevoli sono le difficoltà applicative dei reati societari astrattamente invocabili (art. 2629-bis, 2634 e 2635 c.c.) come di quelli bancari (art. 136 e 137 del d.lgs. n. 385/1993) o legati alla gestione infedele negli investimenti (articoli 167 e 168 d.lgs. n. 58/1998).
Alla fine, resta quel poco che può essere assicurato dai reati patrimoniali comuni della appropriazione indebita e della truffa, o ancora, dai reati fallimentari. Fattispecie penali costruite su meccanismi comuni ed evidenze basilari, che sovente emergono in fasi avanzate della compromissione dell’integrità degli operatori. Come confermato dalla loro operatività, per lo più, in presenza di danni consumati, con il rischio di “poter poco” a fronte di rovine finanziarie estese.
In queste condizioni può dirsi stabile e non rimediabile l’inefficacia dell’intervento repressivo penale, anzitutto per la scelta di non dotare il sistema di fattispecie di pericolo, diversamente dal modello francese incentrato sin dal 1935 sulla rilevanza penale dell’abuso dei beni, del credito e dei poteri da parte dei gestori societari, non solo in presenza di interessi di rilevanza pubblica, come quelli dei risparmiatori e degli investitori.
Più che alzare l’entità delle pene edittali di reati congegnati sin dalla formulazione normativa in maniera da non essere realisticamente perseguibili, converrebbe cominciare a riflettere sull’opportunità di presidiare penalmente il patrimonio degli enti che gestiscono fondi altrui o di rimborsare, secondo un modello autenticamente lealistico, con abbandono delle forme di simbolismo penale.
Articoli della legge fallimentare interessati: ART. 216 (l.f.), ART. 217 (l.f.)
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